SPAZI, SOGLIE, LUCI. Intervista a Ljubodrag Andric

“Cerco l’immagine che sia autonoma, un luogo che possiede ed emana la propria luce; un’entità che, mentre vi siamo di fronte, si rivela gradualmente e si offre, generosamente. […] La carta conferisce fisicità all’immagine, ma in realtà non è che un portale, una membrana; il nostro corpo partecipa” (L. Andric).

“Egli guarda e riguarda lo stesso soggetto fino a quando appare. Vi colloca davanti la fotocamera e aspetta, fino a quando non diventa ciò che stava cercando o fino a quando non si svela in qualcosa che nemmeno lui avrebbe immaginato” (C. Casarin).

“Sarebbe sommario definire il lavoro di Andric fotografico, in quanto, seppur fotografici sono la tecnica, i procedimenti e i materiali, l’esito è quello di un’immagine assoluta, che conquista una chiara indipendenza dalla stessa qualificazione di fotografia e dal luogo di origine” (F. Tedeschi).

Quando la fotografia (di architettura) non si limita a rappresentare, ma diventa veicolo per “immagini che sfiorano l’astrazione”, fotografia e arte arrivano a confondersi, con opere che sono allo stesso tempo “immagine” e “spazio”, conducendo lo spettatore dentro e oltre la sostanza delle cose, in un viaggio in cui “l’architettura si fa pittura e si dissolve in pura luce” (C. Bisatti).

Questo è quanto emerge dal lavoro del fotografo serbo Ljubodrag Andric, di cui si è da poco concluso il progetto espositivo Ljubodrag Andric. Spazi, soglie, luci, a cura di Francesco Tedeschi, realizzato in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini e sviluppato in due “capitoli” con altrettante esposizioni: l’una tenuta a Venezia presso la Galleria di Palazzo Cini, l’altra a Milano presso la BUILDING Gallery, che attualmente rappresenta l’artista in Italia. 

Nato nella ex Jugoslavia in una famiglia di artisti, Ljubodrag Andric (Belgrado, 1965) inizia a interessarsi all’arte e alla fotografia già a 15 anni. Dopo una laurea in scienze umane si trasferisce in Italia, dove svolge studi tra Roma e Milano, dal 1987 dedicandosi interamente alla fotografia, soprattutto di architettura, per la quale ottiene i primi incarichi professionali. Nella sua prima mostra a Belgrado, a 23 anni, affronta il rapporto tra spazio e architettura – suo soggetto privilegiato – concentrandosi progressivamente su una pratica artistica che va oltre il concetto di mera fotografia, tendendo alla “formazione” dell’immagine attraverso la ricontestualizzazione e rielaborazione dei luoghi fotografati per renderli oggetti autonomi. Le sue opere – raccolte in una monografia edita da SKIRA nel 2016 – sono state esposte in musei, fiere e gallerie in tutto il mondo, da Londra a Parigi, da Venezia a Torino, da San Francisco a Toronto, città dove egli vive e lavora dal 2002.

Ritratto di Ljubodrag Andric, ph. Genevieve Caron

“I lavori fotografici di Ljubodrag Andric ci interrogano su cosa i nostri occhi siano abituati a vedere di fronte a un’architettura. Le sue immagini mettono esplicitamente in discussione la nostra visione, la nostra capacità di osservare e comprendere gli edifici, siano essi grandiose architetture o semplici murature di villaggi sperduti in angoli remoti del mondo” (R. Codello).

A metà tra la pittura astratta e la fotografia di architettura, le opere di Andric raffigurano ambienti architettonici minimali, puliti e geometrizzati, ricchi di dettagli e permeati di una materia dalla texture amplificata, nei quali l’inquadratura riduce l’immagine alla nuda essenza eliminando la riconoscibilità del soggetto – che così assume una nuova identità – alla ricerca di un’armonia tra forme, luce e colore, volta a creare una “nuova forma percettibile” che inviti lo spettatore ad andare “oltre la realtà percepibile, in una dimensione che oscilla tra il concreto e l’impalpabile” (C. Bisatti), per comprendere l’opera a livello personale e meditativo.

Attraverso un continuo interrogare il luogo e un lungo processo di post-produzione che parte da composizioni geometriche, razionali e oggettive, guidate da un preciso disegno e da una logica strutturale, sia sotto il profilo dell’esecuzione che della successiva elaborazione, Andric ricerca sensazioni astratte attraverso luoghi reali – quelli da cui la sua sensibilità è attratta – superando così l’astrazione “pura”, priva di riferimenti nella realtà, con creazioni fortemente fisiche e sensuali che partono da elementi architettonici familiari e universalmente riconoscibili, nelle quali però il luogo e il tempo di cui sono traccia risultano sospesi.  Le sue opere vengono stampate in grandi formati, orizzontali o verticali, tanto da competere con l’originale ritratto, al fine di poter creare uno spazio dentro lo spazio che inviti ad entrare, che cambi “aspetto e colore a seconda della giornata. […] Non ‘memoria’ di un momento, ma finestra esse stessa” (C. Casarin). In questo modo l’immagine fotografica diventa assoluta, permettendo all’osservatore – immerso nella multi dimensionalità dello spazio in cui essa è posta – di superare le soglie del visibile per scoprire nuove possibilità di lettura della realtà e di se stesso, compiendo un viaggio di riflessione interiore.

LUCKNOW 3 © Ljubodrag Andric (2024)

Andric non descrive, non documenta i luoghi in un determinato momento, ma da ciascuno di essi ricava una storia, giocando sull’ambiguità di scala, isolando dettagli e particolari – quali “parti di un luogo da esplorare” (L. Andric) – di superfici murarie, nicchie, varchi, tagli di luce; indugiando sulla “pelle, le screpolature e i bagni di sole, le macchie improvvise, le pieghe che a volte mettono in discussione l’esistenza stessa della fabbrica” (R. Codello) senza però determinarne una diminuzione di carattere: in questo modo egli ricerca un’esperienza visiva che vada oltre l’apparenza, spostando l’attenzione dallo spazio creato dall’uomo ad un carattere significante. Le sue immagini assumono così un valore simbolico di passaggio e di trasformazione, rappresentando “un invito ad attraversare un confine, a varcare una soglia […], un limite invisibile tra il mondo fisico e quello interiore” (C. Bisatti), una dimensione di contemplazione che trascenda la semplice rappresentazione del reale.

LUKNOW 10 © Ljubodrag Andric (2024)

Da qui deriva il titolo del progetto espositivo “Spazi, soglie, luci”, che riassume l’essenza del lavoro dell’artista, strutturato attraverso due differenti selezioni di opere – appositamente pensate e studiate – l’una per la Galleria di Palazzo Cini, all’interno della Fondazione Giorgio Cini – centro internazionale di attività artistiche, culturali e di ricerca istituito nel 1951 da Vittorio Cini in memoria del figlio Giorgio per promuovere il ripristino del complesso monumentale veneziano dell’Isola di San Giorgio Maggiore -, l’altra per gli spazi milanesi di BUILDING, istituzione culturale composta da differenti spazi e progettualità dedicata all’arte nelle sue diverse forme espressive, nata nel 2017 dalla visione di Moshe Tabibnia in un’ottica di scambio artistico e di sperimentazione.

L’esposizione, in entrambe le sedi costituita da una sequenza di opere di grandi dimensioni, senza didascalie, disposte liberamente nello spazio, è stata accompagnata dalla pubblicazione di due cataloghi, editi da BUILDING Editore in collaborazione con Fondazione Cini: l’uno dedicato al capitolo veneziano della mostra, con i contributi del curatore e di alcuni membri della Fondazione, l’altro riferito all’intero progetto espositivo, accompagnato da alcuni testi critici, a cui si aggiunge una pubblicazione sull’India a cura di Hartmann Books

MANDU 12 © Ljubodrag Andric (2024)

Nella cornice veneziana, in particolare, sono state selezionate alcune opere che, in un gioco di rimandi e risonanze, hanno messo in dialogo le immagini elaborate a partire dai viaggi di Andric in India, effettuati tra il 2021 e il 2024, con quelle frutto dei soggiorni dal 2023 al 2025 a Venezia presso la Fondazione Cini, in un confronto – ricondotto al mondo visivo creato dall’artista – tra due differenti atmosfere, tra “gli echi delle stratificazioni storiche della città lagunare e le atmosfere intime e sospese del cuore dell’India”.  

Allestimento Palazzo Cini La Galleria. Courtesy Building Milano

L’esperienza veneziana dello “stare”, coincidente con la ricerca del fotografo, gli ha permesso in particolare di “guardare” con occhi diversi il complesso architettonico di S. Giorgio Maggiore, nel quale hanno operato, tra gli altri, Palladio e Longhena, osservandone gli spazi – costituiti da chiostri, scale, colonne, volte, capitelli – con le luci del giorno e le ombre della notte, per cogliere quello che sfugge a una visita breve e verificare, durante questi tempi dilatati, cosa si sarebbe distinto sullo sfondo, entrando nell’obiettivo per poi essere impresso nella carta.

Nella mostra di Milano, invece, sono state selezionate alcune opere dell’artista, suddivise per temi, in una narrazione in dialogo con l’architettura della galleria su due livelli, partendo dalle forme architettoniche con cui egli ha esplorato spazi (interni, esterni e di superficie), per poi transitare, attraverso soglie costituite da nicchie, aperture o finestre cieche, ad immagini di estrema rarefazione della luce, nelle quali l’architettura è smaterializzata in pura essenza luminosa, “in un percorso espositivo in grado di trasformare ancor di più l’oggetto architettonico in metafora”.

Ed è proprio nella Galleria Building di Milano che – prima ancora di aver potuto vedere dal vivo le immagini di Andric – è avvenuto l’incontro, seppur a distanza, con questo incredibile artista, per approfondire i temi e le modalità del suo lavoro.

Cos’è per te la fotografia? Quando è nata questa passione e come si è sviluppata?

Il mio modo di lavorare, pur essendo tecnicamente fotografico, non è vera e propria fotografia, se questa la intendiamo come riproduzione del mondo. La fotografia intesa come rappresentazione di qualcosa che è altrove o non è più, così come la fotografia di architettura volta solo a descrivere l’essenza dello spazio, non hanno mai costituito per me alcun interesse, mentre mi ha sempre attirato l’dea di creare un’immagine che fosse luogo di per sé, in cui la base fotografica costituisse un “motif” da rielaborare e nella quale un elemento quasi irrilevante potesse svelare qualcosa o trovare una serie di relazioni tali da diventare immagine. Quando ho iniziato – 35 anni fa – sono stato subito affascinato dalla possibilità – scoperta per caso – di fotografare qualcosa e poterlo trasformare totalmente. A quei tempi – quando non c’era il computer e tutto dipendeva dai limiti delle pellicole e dalla tecnica – usavo il bianco e nero, meno limitante e più gestibile. Negli anni il mio modo di fotografare è cambiato e si è affinato, ma, se riguardo i materiali di allora, trovo immagini simili a quelle di oggi: frontali e autonome rispetto al soggetto rappresentato. Nella mia prima mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Belgrado – a 23 anni – sponsorizzata dall’Ambasciata Italiana (sono cresciuto a Belgrado ma all’epoca vivevo in Italia), c’erano immagini di Ostia antica in bianco e nero, frontali, senza persone, con cieli bianchissimi, sbiancati a mano: quindi già intervenivo sull’immagine per eliminare la narrazione e i richiami al concreto e all’attualità, spostandola in un’altra dimensione.

Il tuo modo di lavorare è a metà tra la fotografia di architettura e la pittura astratta: da cosa deriva questa combinazione?

Secondo alcune teorie – come quelle di Alois Riegl o della Gestalt – ci sono due registri percettivi costantemente in bilico: da un lato le cose vicine, con cui ci relazioniamo come oggetti, dall’altro quelle lontane, di cui vediamo l’aspetto astratto. Nelle mie immagini tendo a mettere questi due registri in una relazione virtuosa: una specie di equilibrio tra immagine e spazio, dove l’osservatore non è nel dubbio di dove andare – là o qua – ma può abbandonarsi all’immagine stessa, che è viva e vive in uno spazio. Credo che questo sia ciò che ricerca anche un architetto, che, pur tendendo a uno spazio ideale, lo vuole vivo, non statico, dove vivere e abitare: un punto di incontro tra utilità e astrattezza, un luogo dove è benvenuto e può vedere sia il mondo per quello che è sia una dimensione più ampia, non immaginata, vivendo le cose con maggior pienezza. Questo tipo di rapporto è necessariamente architettonico, perché l’immagine – stampata su carta di grande formato (circa 120 x 160 cm) – diventa luogo, in modo che la mente non vada al materiale o al soggetto originale ma semplicemente viva con quello che ha di fronte. Per facilitare questa messa in armonia, però, è necessario uno spazio preparatorio – come un’anticamera – dove poter sospendere quello che succede fuori prima di entrare, e questo è quello che cerco di fare con le immagini.

Qual è il tuo processo creativo? Come lavori sulle immagini?

Realizzare queste opere è più simile a un disvelamento, un processo graduale – simile a quello della scultura (dove si sa dove si inizia ma non si sa cosa ne verrà fuori) – che non può essere forzato né imposto sulla materia grezza da cui parto: mentre costruire qualcosa è razionale e intenzionale, alla ricerca di certi effetti o sensazioni, io parto con un’intenzione, ma poi, trovata un’immagine guida o un filo conduttore, li seguo, li assecondo e li lascio sviluppare per conto proprio fino a quando l’essenza non appare, rispettando il materiale nella sua irrazionalità per permettere che l’immagine nasca. E’ un metodo semplice, sempre più puro: ho sviluppato una tecnica minima di elaborazione a computer dove non c’è bisogno di ragionare, strutturare o pianificare, per evitare di perdere l’immediatezza necessaria per queste immagini, nelle quali dal niente si passa a qualcosa o a troppo con un semplice tocco, mentre è necessario trovare il punto giusto. Io non correggo quasi mai i difetti o gli elementi ripresi dall’obiettivo (solo raramente tolgo cose del tutto incongrue come una lattina schiacciata), ma in genere mantengo tutto quello che ho inquadrato “in macchina”, lavorando gli elementi presenti nell’immagine in modo da renderli l’uno necessario all’altro, tanto che senza di uno di essi la composizione non terrebbe: è da questo che nasce la sensazione del pittorico. Quando ho provato ad eliminare alcuni elementi che, a livello conscio o inconscio, avevo ripreso, l’immagine improvvisamente è diventata artificiosa. Inizialmente ho provato anche a far preparare ai miei due assistenti delle maschere per ciascun elemento (importante lavoro preparatorio da svolgere in modo preciso e meticoloso per evitare che, cambiando un solo valore, emergano bordi o difetti), che poi io avrei isolato controllandone contrasto e colore durante la parte “creativa”, ma mi sono accorto che così non funzionava, perché arrivavo già con un’intenzione, senza guardare quello che avevo davanti con occhi innocenti. Ho quindi capito che, solo occupandomi personalmente – per ore e giorni – di tutte le maschere, quando poi lavoravo l’immagine le cose si risolvevano da sole, perché, in qualche modo, avevano lavorato nella mia testa.

MANDU 8 © Ljubodrag Andric (2024)

Come scegli i luoghi da rappresentare? Derivano da una ricerca approfondita e preventiva o da una suggestione improvvisa?

Di solito collaboro con chi rintraccia locations per il cinema ed è abituato a guardare le cose come sfondi, alla ricerca di luoghi dove il regista inserirà la sua storia, mentre chi si occupa di fotografia spesso cerca immagini forti: mostrando alcuni lavori chiedo loro luoghi con certe qualità e potenziale (per materia, proporzioni, elementi), poi sulla base del materiale di scouting ne individuo uno, ci vado e ci passo un po’ di tempo. Quello che cerco, però, lo trovo solo sul posto camminando, partendo da un punto ma cercando con la coda dell’occhio in altre direzioni. Visto che le cose cambiano con la luce, inoltre, spesso passo più volte negli stessi posti e a rovescio – come nel cinema – per capire la dinamica del luogo. In questo modo trovo molto più di quello che mi aspetto, scoprendo cose che altrimenti non avrei colto: il viaggio diventa così quello che un viaggio dovrebbe sempre essere, dove succedono cose che non si possono pianificare. A volte, ad esempio, non fotografo quello che mi ha spinto in un determinato sito, anche cercando i permessi per entrarvi (cosa non sempre facile), ma fotografo tutt’altro, cose minime che poi diventano grandi o enormi che sembrano piccole. Parto anche da fotografie di anni prima, di cui avevo intuito le potenzialità ma che in quel momento non ero in grado di sviluppare e che poi, facendo altri lavori, riscoprendo certi rapporti ed armonie e provando ad applicarli su di esse – un pò come nella musica – riesco a concludere improvvisamente. L’altro giorno ad esempio ho finito un’immagine di Venezia di 7 anni fa, che all’epoca avrei lavorato in modo diverso, cosa che non ho fatto perché avevo evidentemente intuito che non era la strada giusta: da una cosa molto tattile ne ho fatta una completamente trasparente.

L’atto fotografico come avviene?

L’atto del fotografare è sempre molto veloce, perché dipende dall’intuizione e dall’idea che ne è il motore, e non c’è grande differenza se è un’immagine che ti aspetti o non ti aspetti. Quello che conta è l’intenzione, il luogo, il momento. Ci si sposta, si aspetta la luce, si fa il gesto e a quel punto si ha l’immagine che poi si sviluppa. È come in pittura: il pensare – cioè l’idea, il gesto, l’intenzione – deve essere veloce, mentre il lavoro di editing è lungo e avviene in un secondo tempo: durante i viaggi, infatti, non guardo mai il materiale prodotto, tranne che per assicurarmi che sia tutto a posto, per evitare distrazioni rispetto a dove mi trovo.

Che macchina fotografica usi?

Io uso una specie di banco ottico, che, come per l’architettura, permette di controllare la prospettiva e la convergenza delle linee per ottenere un’immagine dove non si senta l’intermediazione della macchina fotografica. È un dorso digitale ad altissima risoluzione, la più alta che esista – Phase One IQ4 – che crea un’immagine di base di 900 megabyte, in cui la separazione del colore è assolutamente impensabile e da cui riesci a tirar fuori, svelandoli piano piano, una serie di valori (come fare dei raggi X alle superfici), che l’occhio non coglie. Partendo da questa base la lavoro e la elaboro al computer, in funzione della stampa.

C’è differenza nel tuo lavoro tra l’uso di immagini verticali e orizzontali?

Io ho sempre utilizzato immagini orizzontali, ovvero il modo comune di vedere il mondo, in una specie di cinemascope, dove raramente si guarda in alto o in basso, salvo per motivi particolari. Nel secondo dei quattro viaggi che ho fatto in India, però, quando sono tornato mi sono accorto che il 97% dei lavori erano verticali: infatti l’orizzontale rimane un’estensione dello spazio in cui siamo, nel quale si può decidere di non entrare, guardandolo attraverso la finestra della cornice. Un’immagine verticale, invece, che rappresenta le proporzioni del corpo, soprattutto se stampata molto grande, non è più un paesaggio ma – come un quadro – è un incontro, un’immagine di un luogo che diventa luogo di per sé. Per questo spesso utilizzo anche un piccolo bordo bianco, perché un’immagine fotografica incorniciata al vivo, in qualche modo, inavvertitamente, dà la sensazione che oltre la cornice c’è altro e continua, spingendo la mente in uno spazio reale altrove. Con questo piccolo bordo, invece, l’immagine si chiude da sola ed è autosufficiente.

Quanto è importante la stampa delle immagini?

E’ fondamentale, vista soprattutto la dimensione fisica della stampa: io utilizzo una cartacotone molto liscia ma opaca, di un aspetto naturale, sensuale, che ha un suo peso. La grandezza della stampa favorisce un’esperienza fisica anziché solo visiva e rende l’immagine mentale e sensuale allo stesso tempo: è solo così che può avvenire l’incontro. Questa immagine deve essere necessariamente sperimentata con il corpo, come la musica: in un certo senso cerco di realizzare opere che siano contemporaneamente pittoriche, scultoree, architettoniche e musicali. Quando le sento finite, appendo le stampe sulle pareti nello studio per viverle per un pò di tempo: se durante la giornata, seguendo i cambiamenti di luce, si modificano, rivelando aspetti sempre diversi, significa che sono diventate vive, con una loro vitalità ma anche determinata da chi le guarda. A quel punto non sono più mie (del resto non ho mai pensato all’arte come “self-expression”). Considero queste immagini come qualcosa con cui vivere, avere incontri quotidiani: eliminando il riferimento a qualcosa di esterno – che esiste oggettivamente e si continuerebbe ad immaginare – e lasciando che l’immagine sia autonoma, per così dire, è più facile che diventi un luogo di transizione che permetta all’osservatore di creare la propria, nella percezione e nel corpo, senza bisogno che venga interpretata o mediata.

Infatti non usi didascalie…

No. Essendo immagini totalmente autonome hanno solo titoli indicanti il luogo dello scatto di partenza (un po’ come le “Città invisibili” di Calvino che sono tutte Venezia). Nel libro INDIA, pubblicato da Hartmann Books, infatti non ci sono né didascalie, né titoli, né numeri di pagina, non c’è neanche l’inizio, solo una serie di immagini e alla fine un apparato critico: un percorso meditativo dove abbandonarsi a una sequenza di immagini, non potendole rappresentare – in un testo – stampate in grande formato.

Le tue immagini sono solo autonome o acquistano significato in sequenza come progetto globale?

Le immagini devono funzionare per conto proprio, come se fossero uniche e non in termini di serie (perché si rischierebbe di procedere in maniera comparativa, quindi formale e razionale), ma è assolutamente vero che due affiancate in uno spazio danno un’idea più completa dell’intenzione che c’è dietro. Quindi vederne più insieme, l’una accanto all’altra in un libro o in una mostra, è molto di più della somma delle parti, perché esse si qualificano a vicenda, privilegiando il “guardare” (sguardo innocente) anziché il “vedere” (individuare una cosa che stavi cercando).

ROMA 3 – JAIPUR 41 LUKNOW 1 © Ljubodrag Andric (2024)

Nelle tue immagini fessure, patine, efflorescenze, intonaci scrostati vanno a comporre nuovi immaginari figurativi: cosa ti affascina del degrado della materia?

Nelle immagini, anche in quelle di Roma e Venezia “bianco su bianco”, ci sono sempre delle imperfezioni; se non ci fossero chi sta davanti sarebbe proiettato in un altro mondo, mentre così rimane sospeso tra i due. La presenza di un elemento di vissuto di questo mondo, tattile e ruvido, sovrapposto e intrecciato con l’apertura su una dimensione più pura, assoluta e astratta, costituisce la tensione positiva: l’equilibrio fra metafisico e tattile. In questo modo l’imperfezione da difetto diventa pregio, perché permette a questa tensione di essere viva e vitale. Io ne tengo conto quando faccio l’inquadratura: se non ci fosse una certa fessura inquadrerei probabilmente in modo diverso, ma non vado nemmeno a sottolinearla. In alcune immagini c’è una specie di tunnel in fondo al quale c’è una luce, che rappresenta un luogo perfetto, ma un luogo perfetto è statico. Noi stiamo invece sospesi fra i due mondi. Per non fare paragoni pretenziosi, Jean-Paul Sartre parla del lavoro di Tintoretto collegandolo al termine “pesantezza”, con corpi che cadono perché hanno peso – di questo mondo – ma anche sospesi nella loro aspirazione verso l’alto. Questo spazio di passaggio è pieno di imperfezioni, ricco, vitale, dove scoprire qualcosa di nuovo semplicemente guardandosi intorno.

VENEZIA 27 © Ljubodrag Andric (2024)

Cos’è per te la “soglia”?

Io intendo la soglia nei due versi: non un semplice invito ad attraversare le immagini per andare non so dove, ma piuttosto un luogo dove uno si chieda se è da una parte o dall’altra, guardandolo al rovescio.

Tu nasci in una famiglia di artisti: hanno influenzato in qualche modo la tua fotografia? Quali sono i tuoi riferimenti, non solo in fotografia?

Mia madre faceva l’attrice, mio padre scriveva e produceva, mio fratello è pittore, un cugino lavorava nel cinema: era un ambiente molto stimolante, in cui ero esposto soprattutto a letteratura, teatro e musica. Da piccolo ogni estate passavamo due mesi e mezzo in Grecia (prima di aver compiuto 15 anni sarò stato a Delfi, Epidaurus e Micene 5 volte) o in Italia a vedere le opere del Rinascimento, quasi come in un pellegrinaggio, e io pensavo che fosse così per tutti gli altri ragazzini. Nei primi viaggi da solo, a 17-18 anni, in Francia e Inghilterra, ho poi scoperto l’espressionismo astratto, che mi ha influenzato, mentre ho saltato del tutto l’arte concettuale, che ritenevo sterile, tranne eccezioni come Sol LeWitt, la cui risonanza poetica può portare in uno spazio altro.

In quegli anni in fotografia mi incuriosivano poche cose, ad eccezione delle immagini di grande formato di alcuni americani: in particolare ero colpito da quelle – lavorate con il processo di stampa “dye transfer” – di Eliot Porter, che già negli anni ‘40 vedeva nella natura l’aspetto astratto, con fotografie che non riproducono semplicemente la realtà ma hanno una vita, cosa che ho ritrovato nei primi lavori di Richard Misrach o di John Meyerowitz, entrambi americani, abituati ad avere una diversa relazione con lo spazio e il paesaggio. Del resto la fotografia descrittiva o di reportage non mi sollecitava: non guardavo le cose, ma cercavo relazioni, innesti, equilibrio, in senso classico. Adesso vivo nel mondo anglosassone, dove tutto è diverso: qui domina l’arte come comunicazione, anziché forma e spirito, però questo mi ha stimolato – con più volontà e determinazione – a dare vita a qualcosa che emana altro. 

Nel mio lavoro sono stato però più influenzato dalla pittura, a partire da Beato Angelico, Sassetta o Piero della Francesca (nelle cui opere prevale un elemento astratto, di relazioni), passando per Tintoretto e Tiepolo fino a Morandi, in cui tutto è una questione di rapporti di proporzione in relazione all’insieme e dove, grazie alla qualità delle pennellate libere, sensibili e di colori tenui, la luce nasce alla fine dell’immagine. Devo molto anche ai paesaggi del primo Corot, a Pierre Bonnard e agli acquarelli dell’ultimo Cézanne, nei quali con un semplicissimo gesto – poche macchiette qua e là – egli fa il tutto: spazio, spazio mentale, paesaggio; così come negli ultimi disegni di Giacometti nei quali si possono percepire linee di energia nello spazio, che è quello che cerco di svelare anch’io, in un modo diverso, ovviamente. Il periodo Bauhaus di Kandinsky e Joseph Albers sono stati altri riferimenti, nel loro confermare la relatività del colore, cioè che l’immagine si fa nella percezione e non sulla tela, mentre gli straordinari grandi formati di Pollock e Rothko, nei quali l’immagine è prima e soprattutto processo e esperienza, o quelli di Clyfford Still o dell’ultimo Willem de Kooning, ma anche i più recenti Gerhard Richter, Brice Marden, Polke, Antony Gormley, Toba Khedoori mi hanno influenzato in questo senso, ognuno a modo suo.

Non posso infine dimenticare riferimenti in architettura come Brunelleschi, Palladio per l’uso della luce e Borromini per lo spazio liberato; nella musica Wagner o Mozart; nel teatro Bob Wilson e nel cinema David Lynch e Michelangelo Antonioni, il cui “Deserto Rosso” è forse la ragione per cui ho cominciato a fare fotografia.

In molti di questi artisti – che in qualche modo hanno determinato il mio lavoro – c’è una ricerca dell’equilibrio e del metafisico, nel senso che si arriva al metafisico attraverso un equilibrio matematico: una proporzione del non misurabile – come nelle inquadrature – un campo magnetico che racchiude ciò che non è misurabile.

Come nasce la collaborazione con la Fondazione Cini e il parallelo tra l’India e Venezia?

A Venezia 9 anni fa feci una mostra alla Fondazione Querini Stampalia, curata da Francesca Valente con allestimento di Tobia Scarpa. Quest’ultimo lavorava allora con l’attuale presidente della Fondazione Cini, Renata Codello, che, anni dopo, mi chiamò offrendomi di sperimentare il mio lavoro negli spazi della sede della Fondazione, sull’isola di San Giorgio Maggiore. In quel momento stavo lavorando sull’India e così mi veniva offerta, pur senza saperlo, la possibilità di operare su un doppio binario, con un contrasto per me straordinario: a Venezia il bianco, evanescente, trasparente, imprendibile, con una luce ambigua che si nota passando del tempo da solo sull’isola, mentre in India non sei mai solo, circondato da migliaia di persone e stimoli continui, dove tutto è colore e materia. A Venezia ci sono bellissimi intonaci antichi, con una qualità minerale che trasmette la luce, per cui in momenti diversi della giornata o dell’anno cambiano completamente, modificando anche le proporzioni degli spazi e mostrando qualità infinite: da trasparenti a materici a ruvidi. In tre anni di progetto, dopo aver fotografato le cose più ovvie, ho riguardato tutto con occhi diversi, non concentrandomi più sulle immagini forti ma sullo spazio, slegato da una visione descrittiva, notando così relazioni che prima – nell’urgenza del fare (cosa che si ha quando si viaggia) – non avevo notato: i capitelli girati di 180 gradi diventavano così cittadine di Calvino appese sulla collina. Questo rallentare mi ha molto aiutato, soprattutto quando sono tornato in India, dove succedono sempre cose straordinarie.

VENEZIA 15 © Ljubodrag Andric (2024)

Com’è stato il rapporto con la Galleria BUILDING?

Esporre è una parte importantissima del lavoro, perché l’opera ha finalmente una vita, vive nel suo spazio, per cui è importante il rapporto con chi cura l’allestimento: io ho lavorato con molte Gallerie e Musei, con i quali però spesso ho avuto un rapporto un pò rigido, mentre qui esso si è costruito nel tempo – cosa molto rara – con un doppio progetto che è cresciuto in maniera organica e una collaborazione reciproca assoluta.

C’è un progetto fotografico o luogo a cui sei più legato? Che progetti hai per il futuro?

L’India è un progetto infinito dove poter trovare continuamente materiale nuovo da fotografare, perché – soprattutto in Rajasthan – non ci sono elementi iconografici, per cui la lettura dell’immagine non è condizionata da ciò che è riconoscibile. Vorrei anche continuare a fotografare l’Italia, sulla scia di quello che ho fatto con la Fondazione Cini, con cui sto terminando un progetto di una trentina di immagini. Però vorrei fare un lavoro sul “bianco su bianco”, come nelle immagini di Roma, in contrasto con quelle dell’India, dove è protagonista il colore. Nella mia vita ho fatto molti viaggi (Vietnam, Thailandia, Cina, Stati Uniti ecc.) ma ora, scoperta la dinamica Italia-India, voglio approfondire lì, con lavori più puri e puliti: mi è difficile in questo momento pensare ad altro, perché, essendo irrilevante il luogo nel mio lavoro, preferisco continuare con quello che ho trovato, così ricco di spunti, invece di essere distratto da altro.

Ed è sicuramente una prospettiva molto interessante.

Nel rinnovarti i miei complimenti ne approfitterò per vedere dal vivo le tue opere, che finora ho osservato solo sulla carta.

Ah davvero? Mi piacerebbe allora risentire tutto quello che ci siamo detti in base all’esperienza.

E questo è il mio pensiero dopo di allora: se nelle pubblicazioni o sul video le foto risultavano interessanti, è però solo dal vivo che l’esperienza si è potuta completare, come nella pittura, dove l’opera d’arte non potrà mai rendere se non in presenza. Nonostante le fotografie siano bidimensionali, infatti, la matericità delle superfici raffigurate sembra emergere nella terza dimensione: le fessure quasi impercettibili delle volte sembrano confondersi con crettature della tela pittorica, i colori appaiono stesi attraverso spatolate, si possono scorgere tutti i dettagli che normalmente l’occhio umano non percepisce nello stesso momento, eppure tutto appare nitido ed omogeneo nell’interezza.

VENEZIA 21 © Ljubodrag Andric (2024)

Non solo: la curiosità di poter “guardare” il mondo con lo stesso incanto dell’artista mi ha spinto anche a visitare la Fondazione Cini, dove ho potuto sperimentare, affascinata, la stessa atmosfera incantata che emerge dalle immagini di Andric, attraverso quella luce autunnale che solo Venezia ha – così trascendente – che si infrange sulle ruvide superfici degli edifici del complesso monumentale, raggiungibile solo attraverso il mare, confermando il fatto che l’opera dell’autore “è il risultato finale di un processo di elaborazione che non inizia con l’osservazione, ma con la distanza fatta dall’attraversare l’acqua in barca, tra il prima e il dopo. Poi arriva lo sguardo”.

Patrizia Dellavedova

Foto di copertina: JAIPUR 36 © Ljubodrag Andric (2024). Ove non precisato le immagini sono dell’autore.

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